Il Prof. Dr. med. Marco Valgimigli – viceprimario all’Istituto Cardiocentro Ticino – ha presentato alla più vasta platea internazionale i risultati di uno studio che è già una pietra miliare per la gestione della terapia antiaggregante dopo angioplastica coronarica con impianto di stent.
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Ricerca clinica per definire nuovi protocolli di cura: il Cardiocentro sugli scudi
Che sia uno studio destinato a lasciare il segno lo testimonia il prestigio del duplice palcoscenico dal quale è stato contemporaneamente presentato lo scorso 28 agosto: il Congresso della Società Europea di Cardiologia – il più grande al mondo nell’ambito della cardiologia e anche quest’anno in modalità esclusivamente virtuale (circostanza che non sembra penalizzarlo affatto, visti gli oltre 40 mila contatti stimati) – e le pagine del New England Journal of Medicine, una tra le riviste mediche più note e autorevoli.
Lo studio si chiama Master-DAPT, è stato disegnato anni fa dal Prof. Dr. med. Marco Valgimigli dell’Istituto Cardiocentro Ticino in collaborazione con altri accademici ed è stato finanziato da un istituto “non for profit” con sede in Olanda. 140 i centri coinvolti – in Europa, Asia, Sud America e Australia – circa 4500 i pazienti: in effetti lo studio più vasto mai condotto su questo argomento.
Quale argomento, e perché i risultati ottenuti sono così importanti ce lo spiega lo stesso Prof. Dr. med. Valgimigli. “Lo studio si è focalizzato su una particolare e poco studiata popolazione di pazienti. Soggetti che necessitano di angioplastica coronarica con impianto di stent e che tuttavia risultano portatori di uno o più fattori di rischio per sanguinamento. In questi pazienti il dilemma clinico è quanto tempo prolungare la doppia terapia antiaggregante, una terapia necessaria dopo l’intervento ma che amplifica notevolmente il rischio di sanguinamento. Fino a circa un anno fa, a questi pazienti veniva prescritta l’assunzione di un duplice antiaggregante per almeno un anno; poi una serie di studi ha mostrato come il rischio marcato di sanguinamento che la terapia comporta, a fronte dei piccoli benefici sull’efficacia, ne raccomandasse una durata più ridotta. Oggi – o meglio fino alla presentazione dei risultati del nostro studio – le linee guida fissano in un periodo di 3-6 mesi l’orizzonte temporale della terapia”.
Lo studio Master-DAPT si è spinto oltre, comparando quanto previsto dalle linee guida internazionali (come detto, dai 3 ai 6 mesi di terapia) verso una durata limitata a un solo mese, e dimostrando che in quest’ultimo caso non ci sono penalità da un punto di vista dell’efficacia, ma al contempo c’è una riduzione del rischio di sanguinamenti.
Grazie all’imponente mole di dati raccolti, al rigore metodologico e alle risposte chiare che ha offerto, lo studio definisce un nuovo “standard of care”, e presto offrirà la base scientifica di nuove linee guida internazionali. “Siamo passati in pochissimo tempo – prosegue Valgimigli – da una situazione in cui si diceva al paziente che avrebbe dovuto assumere per un lungo o lunghissimo periodo una terapia che impattava in modo serio sulla sua qualità di vita (oltre agli effetti collaterali, la terapia antiaggregante aumenta la complessità e il rischio in caso di interventi chirurgici) a una prospettiva decisamente più gestibile e che il paziente può affrontare con molta più serenità. Un passo importante”.
“Un vantaggio immediato per i nostri pazienti – conclude Valgimigli – ma vorrei anche sottolineare un altro aspetto di questo studio, e cioè la sua natura indipendente. Le risposte che ci ha dato, e che condurranno alla definizione di nuove linee guida, vanno con tutta evidenza contro gli interessi delle aziende. Chi produce farmaci antiaggreganti ha interesse a che la terapia – una terapia, sia chiaro, assolutamente necessaria – si protragga il più a lungo possibile. L’interesse del paziente è tuttavia un altro, e siamo orgogliosi di poter dimostrare a quale degli interessi in campo faccia sempre riferimento il nostro lavoro”.